L’Europa dell’auto si stringe attorno a un’unica preghiera: “Donald, fa’ il bravo”. Considerate che ben un quinto delle esportazioni di auto UE è verso gli USA.
Con l’energia di un koala sotto sedativo, l’ACEA implora Bruxelles di non reagire ai dazi americani con la stessa moneta. Il motivo? “La ritorsione è stata un approccio sbagliato”, parola di Christine Lagarde, che evidentemente crede ancora nella favola del commercio globale come un tè delle cinque tra gentiluomini.
Mentre Trump prepara le sue tariffe al 20% sulle auto importate come detto in campagna elettorale, i costruttori nostrani sognano un “grande accordo” con Washington.
Come se il Tycoon fosse un tipo da strette di mano amichevoli e cene a lume di candela. Il precedente con Mercosur – che nessuno ricorda perché nessuno ha visto benefici tangibili – viene citato come modello, e la Cina? “È vitale per la prosperità europea”, dicono. Intanto Luca De Meo, capo dell’Associazione Costruttori europea e di Renault, scrive su LinkedIn che per un vero amante dell’auto la Cina è “the place to be”.
E infatti lì, grazie ai sussidi di Stato e a una strategia meno suicida della nostra, l’industria dell’auto cresce. Mentre a Bruxelles si discute se fare i duri o continuare a farsi prendere a schiaffi, a Detroit e Pechino ridono. Perché nel commercio globale, come in una trattativa con Trump, chi non impone regole finisce col subirle.