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Royal Enfield Fury. La Bullet vitaminizzata

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Quando un gruppo di appassionati ‘anglofili’ si trova a disquisire sui ‘single’ sportivi stradali più famosi del dopoguerra, la Royal Enfield Bullet non è certo la prima della lista. La regina incontrastata è la BSA Gold Star. La famosa DBD34 rappresenta infatti il perfetto mix tra estetica, blasone e prestazioni. Poche storie: la ‘Goldie’ era perfetta nelle proporzioni, elegante nello stile (solo il serbatoio è già un capolavoro) e aveva un motore con un gruppo termico così imponente da mettere in soggezione anche il più impettito dei bicilindrici. Era la sportiva per eccellenza, nobilitata poi da anni di successi nel Manx Gran Prix, evento ‘minore’ rispetto al TT, ma assai seguito da chi voleva vedere in azione sul Mountain dell’Isola di Man le moto derivate dalla serie.

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La Royal Enfield Fury 500.

Dopo la ‘Beeza’ io ci metto la Velocette, che col suo aste e bilancieri di lontane origini (come d’altronde la gran parte dei motori inglesi del dopoguerra) reggeva il confronto col mono di Birmingham. La Venom 500, declinata poi nella più veloce versione Thruxton, era una valida avversaria della Gold Star.

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Dietro queste due ‘signore’ c’erano  poi tutta una serie di altri mono di diversa estrazione e carattere: le AJS e Matchless, turistiche con una predilezione per il fuoristrada, la Norton ES2 e la Ariel VH, tranquille tuttofare e la Royal Enfield Bullet che, tra tutte quelle citate, è quella che è sopravvissuta al tracollo dell’industria britannica e, prodotta fin dagli anni ’50 in India per il mercato interno, si è negli ultimi vent’anni evoluta tanto da ritagliarsi un posto di rilievo nel panorama delle moto dal sapore ‘vintage’ tanto di moda oggi.

Partendo dal monocilindrico degli anni ’30 la Royal Enfield ha creato, nel 1949, la prima Bullet 350 seguita, nel 1952, dalla versione di 500cc, ottenuta portando l’alesaggio da 70 a 84 mm con la medesima corsa (lunga) di 90 mm.

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La Royal Enfield Bullet 500.

L’impiego sportivo prevalente della Bullet fu il fuoristrada, in particolare il trial ma anche il motocross, tanto che la Casa di Redditch creò per il mercato USA una versione di 500cc con pneumatici tassellati, manubrio e scarico alti e impianto elettrico, in pieno stile enduro. Nel 1955 la gamma sportiva della Bullet si completò poi con le versioni da corsa sia di 350 sia di 500 cc che non avevano però l’appeal della Gold Star ed ebbero limitato impiego in pista, tanto da essere tolte dal catalogo già nel 1957, lasciando spazio alla sola versione scrambler.

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Il carburatore Amal GP da 38 mm.

Nel 1959 il motore di mezzo litro ebbe una nuova testa in lega leggera coi supporti dei perni dei bilancieri ricavati nella fusione e dunque con un’estetica più moderna e ‘pulita’, con due coperchi che racchiudevano gli organi della distribuzione. Con questa modifica il motore assumeva un aspetto decisamente più imponente, avvicinando il Gold Star. Era dunque maturo per poter originare una monocilindrica di alte prestazioni che, specie sul mercato USA, era ancora richiesta per l’utilizzo nei loro enduro desertici e nelle gare di dirt track. 

Nasce la Fury

Non c’è dubbio che Bullet, ovvero pallottola, sia un nome che si addice a una moto veloce. Ma alla nuova creatura alla Royal Enfield dovettero dare un nome diverso, anche perché Bullet identificava ormai una moto più adatta al turismo oppure, nella versione sportiva, al trial. Fu dunque deliberato Fury, un nome inedito per una moto.

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La forcella ha il perno avanzato.

La Fury 500 è un’assoluta rarità (ancor più nella versione di 350cc, realizzato in una manciata di esemplari), poiché fu prodotta tra il 1959 e il 1963 in soli 191 pezzi, secondo le stime fatte dal Royal Enfield Owners Club. Di questi, la maggior parte (154) furono venduti nei primi due anni di vita. Tutte, come abbiamo detto, finirono Oltreoceano, distribuite nelle varie zone con o senza impianto elettrico, a seconda delle richieste del cliente, dalla Cooper Motors sulla costa Ovest, dalla Shillingford di Filadelfia per l’est e il sud degli States mentre nel Michigan c’era la Shores Motors che si occupava del nord.

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Un dettaglio dell’ammortizzatore Armstrong.

Una curiosità: dal 1955 la Indian Sales Corporation, un’entità a se stante rispetto alla fabbrica costruttrice, ormai in cattive acque, e che importava e vendeva negli USA col marchio Indian lo scooter Papoose, prodotto in Inghilterra dalla Brockhouse Engineering col nome Corgi, fece un accordo con la Casa di Redditch per vendere le Royal Enfield col nome Indian sul serbatoio.

La Bullet americana era una versione ‘pompata’ di quella inglese che si chiamava Indian Woodsman. Nel 1959 vendette negli USA la prima versione della Bullet con la testa grande (conosciuta anche come ‘doghouse’) chiamandola Westerner. Ma proprio quell’anno cessò l’accordo di collaborazione e dunque le prime Fury che sbarcarono negli Stati Uniti, molto simili alle Westerner, erano marchiate Royal Enfield.

Per rendere più moderno l’aspetto generale della Fury, si pensò di adottare il telaio della Royal Enfield Crusader, una monocilindrica di 250 cc col cambio in semiblocco proposta a partire dal 1956. Un deciso passo avanti rispetto al tradizionale monoculla utilizzato fino ad allora e che tradiva una concezione anteguerra. Anche i freni, a tamburo centrale entrambi da 175 mm di diametro, erano ereditati dalla Crusader.

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L’ultima versione della Bullet 500 ha il telaio della Fury a sua vota derivato da quello della Crusader 250.
Un mono pepato

Per ricavare i 40 CV dichiarati dalla Casa, quasi il 50% in più dei 27 CV del Bullet ‘normale’, la ricetta non fu troppo complicata. La base di partenza, come abbiamo detto, era il motore ‘testa grande’ della Bullet 500. Il diametro della valvola di aspirazione fu mantenuto invariato a  26mm ma il condotto fu modificato per adattarlo all’utilizzo di un mega carburatore Amal GP da 38mm. Ovviamente quella potenza, peraltro piuttosto ottimistica, era registrata a scarico libero.

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Il cambio separato ha quattro marce.

Completamente nuovo il cilindro, una fusione di alluminio che inglobava la canna di ghisa secondo il metodo Alfin, lo stesso utilizzato per i cilindri del bialbero Norton Manx. Il pistone di diametro 84 mm aveva il cielo più pronunciato per elevare il rapporto di compressione da 7,3:1 a 8,9:1.

L’albero motore era formato da due volani discoidali (derivati però dal motore 350cc e quindi più piccoli del 500 cc) col bottone di manovella piantato a caldo e tenuto da due grossi dadi. I robusti supporti di banco contavano su un cuscinetto a doppia fila di rulli sul lato distribuzione e una coppia di cuscinetti (rulli più sfere) sul lato trasmissione primaria. Le modifiche all’albero motore non permisero però un buon bilanciamento, poiché le vibrazioni del Fury sono decisamente più fastidiose che non sulla Bullet. La biella, con la testa ad occhio, ruotava su bronzina, secondo una pratica comune ai monocilindrici Royal Enfield, ed era lubrificata da una copiosa portata d’olio fornita da una pompa meccanica. La lubrificazione era a carter secco, ma l’olio era stivato in un serbatoio ricavato in un vano del carter motore. All’accensione provvedeva un magnete ‘racing’ Lucas N1.

I rapporti finali sono gli stessi della Bullet standard, con 21 denti di pignone e 46 denti nella corona. Era possibile montare anche corone di diverso diametro, poiché la Casa prevedeva numerose opzioni. Il telaio, come abbiamo accennato, era quello della contemporanea Crusader con forcellone regolato da una coppia di ammortizzatori Armstrong. La forcella era quella di serie, solo con molle più rigide. I cerchi, secondo le preferenze americane, sono da 18″ dietro e 19″ davanti. In UK e in Europa le Bullet avevano entrambi i cerchi da 19″. Il cavalletto centrale poco si addice a una moto sportiva, specie quello in fusione di alluminio tipico delle Royal Enfield del periodo. Molto meglio una semplice stampella laterale, che però non c’è…

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In movimento

Se per le manovre usuali la stampella laterale sarebbe più pratica, per l’avviamento il poter disporre del cavalletto centrale è indubbiamente un vantaggio. Il grosso Amal GP non ha il minimo e il pistone da 84mm compresso quasi 9:1 richiede un certo sforzo muscolare. Meno male che l’alzavalvola e il manettino del ‘ritardo’ di accensione rendono la manovra meno problematica. Una bella ‘cicchettata’, un paio di calci di riscaldamento (della gamba) è il ‘big head’ ci avverte che vuol partire. Un altro paio di pedalate decise e dal lungo sigaro inizia a uscire il sound che ci aspettiamo da un mono ‘cattivo’ come vorrebbe essere il Fury. Esce anche un po’ di fumo, che sparisce mano a mano che la pompa di recupero ristabilisce la corretta circolazione dell’olio. In movimento la Fury non è male: maneggevole nelle curve, accusa freni un po’ marginali se si cerca la ‘staccata’. Ma le vibrazioni non consentono di spingersi oltre e 130-140 orari. Anzi, è tra i 90 e i 110 che si gode del tiro del motore, coadiuvato quando serve dal eccellente manovrabilità del cambio. Dunque niente punte velocistiche che, vibrazioni a parte, sono comunque inferiori a quelle della diretta concorrente BSA, ma guida pulita su strade miste dove ‘lasciata correre’ a dovere la Fury regala le migliori soddisfazioni, senza mettere alla frusta freni e sospensioni. E’ pur sempre una moto vicina ai sessanta e va trattata come tale. In fondo, pensandoci bene, siamo più o meno della stessa età e anch’io merito rispetto, caspita!

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