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Intervista a Marco Visconti, l’architetto che progettò lo stabilimento di Melfi

Tempo di lettura: 6 minuti

Se scorrete nelle pagine di storia, recente, dell’industria automotive italiana, troverete sicuramente il nome dell’Architetto Marco Visconti, colui che nel 1993 progettò lo stabilimento lucano di Melfi, tornato d’attualità dopo che Jeep ha scelto l’Italia per produrre le sue prime auto ibride, le Renegade e Compass 4xe.

Durante questa piacevola intervista abbiamo parlato con l’Architetto torinese, classe 1957, una laurea in ingegneria conseguita al Politecnico di Torino e una in architettura all’Università degli Studi di Genova, cui seguì un master in composizione architettonica alla UCLA di Los Angeles, del suo rapporto col mondo dell’auto, continuato, dopo Melfi, in altri progetti di caratura internazionale legati sempre a doppio filo alla filiera italiana, come avrete modo di scoprire.

Da sempre forte sostenitore della continua ricerca della miglior relazione tra uomo, edificio e natura, in una logica di rispetto reciproco, non potevamo partire da un ricordo nostalgico relativo a quel periodo così fecondo della sua carriera, un’epoca che gli cambiò per sempre la vita.

Architetto Visconti, da Autoappassionati non possiamo non partire con questa domanda: a metà anni ’80, dopo una collaborazione con Renzo Piano, inizia la sua esperienza in Fiat, dove avrà l’occasione di progettare lo stabilimento di Melfi, il primo di tanti progetti nel mondo dell’auto, sul quale e sui quali torneremo a breve. Cosa ricorda di quel periodo?

Beh quegli anni sono la mia vera scuola di mestiere. La scuola di Renzo Piano è stata, per tutti coloro che hanno avuto la fortuna di frequentarla, veramente importante sia da un punto di vista umano sia professionale. Lì ho iniziato a capire che la sostenibilità sarebbe stato il passo importante da fare nella mia carriera e l’ho vista applicata già nel periodo in cui collaborai con l’Architetto Renzo Piano, dove “assorbivo” tutte queste informazioni. Dopo quest’esperienza, ebbi modo di frequentare un master post-universitario negli Stati Uniti, un’altra esperienza importante che mi ha aperto gli occhi sulla sostenibilità“.

architetto marco visconti
Un primo piano dell’Architetto Marco Visconti

Continua l’Architetto Visconti: “Questi concetti ho avuto poi modo di applicarli, inaspettatamente, all’interno della Fiat Engineering. A tal proposito ricordo un aneddoto. Da ragazzino ebbi modo di andare con i miei genitori a visitare l’Abbazia di Monte Cassino, dove si poteva scorgere lo stabilimento Fiat, dall’enorme impatto sull’ambiente circostante, tanto che ricordo di aver detto a mio padre…io farò tutti i mestieri, tranne progettare una fabbrica di questo genere perchè ha un impatto troppo forte sull’ambiente. Mio padre mi rispose con aria sospetta. Anni dopo mi trovai davanti all’incarico di progettare Melfi, uno stabilimento pensato per 6.000 persone. Ancora adesso ho quell’immagine di Cassino negli occhi e per progettare Melfi ho fatto di tutto per andare verso l’impatto ambientale più corretto, funzionale alla sostenibilità. Dopo il periodo di Renzo Piano applicai quei principi generali, per poi staccarmi dopo anni grazie all’interpretazione personale di come i fattori principali della sostenibilità possano diventare creazioni architettoniche, in tanti progetti, tra cui Melfi“.

architetto marco visconti
Una vista del ristorante aziendale Ferrari, a Maranello, progetto che porta la firma dell’Architetto Visconti

Lei, specie dopo l’esperienza che ci ha raccontato, si definisce un appassionato di auto? Nel suo curriculum vitae figurano altri lavori, anche negli anni seguenti la fondazione del suo studio MV Architects, tra cui alcune collaborazioni con Ferrari a Maranello, con la pista del Mugello, con il Museo dell’Auto di Torino e, non ultimo, il training center Iveco sempre nel capoluogo torinese. Una passione che l’ha portata a confrontarsi con aziende, e realtà diverse. Di fondo esiste una passione per l’architettura “coadiuvata” da un legame profondo con il mondo dell’auto?

Inizierei col mondo dell’auto, sì è una passione molto precoce. Mio nonno possedeva un laboratorio e lavorava nel campo della meccanica, e già lì mi appassionai. Da lì il passo fu molto breve e già da ragazzino capire come le forme nascono attraverso la funzione e l’uso mi affascinava e non poco. Andando a studiare carrozzerie e telai proprio qui a Torino, al museo dell’Auto, capii che, ad esempio, già Bugatti realizzava auto di estrema avanguardia già negli anni ’30. Questa voglia di imparare dalla meccanica mi ha fatto diventare un appassionato ma, voglio sottolineare, di auto molto radicali. Ultimamente capisco che questa ricerca nel campo dell’auto debba per forza sfociare in un campo di ricerca legato alla sostenibilità. Nel campo dell’architettura noi abbiamo sempre studiato e cercato di capire come gli edifici possano essere costruiti col miglior dettaglio e con la minor quantità di lavoro, controllando i costi. Questa filosofia l’abbiamo applicata in molti edifici, tra questi quelli realizzati per la Ferrari a Maranello, dove ad esempio l’edificio della Meccanica lavora molto con la luce. Anche il ristorante aziendale ricorda una pala nell’aria che si auto raffresca e ricorda l’aerodinamica in un ambito in cui l’aerodinamica vince“.

“Mi piacevano molto le F1, mi piacevano meno le Rolls-Royce”

Un altro edificio a cui tengo è l’edificio dell’Iveco a Torino, il training center, che ha cambiato volto alla città. Avere a che fare con clienti diversi, tornando alla sua domanda, è sempre molto utile perchè è bello capire le sensazioni del cliente e le sue necessità. In quel caso Iveco era consapevole dell’importanza estetica di un edificio di quel genere e noi abbiamo costruito sul perimetro un edificio lineare che si rende flessibile a svariati usi. Dire che un edificio è flessibile rappresenta l’ABC della sostenibilità. Si parte da qua. In un mondo in cui le esigenze cambiano con la velocità del suono anche l’edificio deve essere in grado di cambiare in maniera molto semplice mantenendo inalterata la sua funzione strutturale principale. Una vera idea è così buona che, con i cambiamenti, rimane inalterata o può migliorare. Ultimamente abbiamo progettato in Cina un’università che ricalca quanto di già fatto con l’Iveco, ossia un edificio molto resiliente“.

Veniamo quindi a Melfi. Lei definisce questo progetto, cito testualmente, basato su “forti principi di sostenibilità e resilienza applicati sia alla scala architettonica sia territoriale”. Ci può spiegare meglio questo concetto?

Melfi è il mio vanto, avevo trent’anni quando ebbi l’occasione di pensare a questo stabilimento per 6.000 persone, da zero, dal prato verde. La prima cosa che si decise di fare fu, avendo da governare una zona di scavo molto ampia, di non ricorrere a camion per trasportare la terra, per evitare trasporti e inutili spostamenti. Abbiamo pensato di portare gli scavi nella zona centrale, così da generare una debola collina che potesse riprendere le colline naturali limitrofe allo stabilimento. Abbiamo poi interpretato la leggera pendenza del territorio riproponendo la stessa pendenza senza dover ricorrere a forzature sull’orizzontale. Questi edifici non sono quindi perfettamente orizzontali. Questo è stato uno dei modi per iniziare un qualcosa che è diventato, anche qui, estremamente integrato. I giganteschi tetti di Melfi sono stati studiati, già allora, per poter diventare dei sistemi ventilati per la produzione di energia fotovoltaica, cosa che è poi avvenuta negli anni seguenti, e anche qui si torna al discorso di resilienza, dove un intervento ha arricchito l’edificio senza modificarne la forma. La sfida è stata poi interpretare le curve della natura, i materiali naturali come il tufo. La porzione a curva di anfiteatro, invece, riprende un riferimento locale molto forte, ossia l’anfiteatro romano di Venosa, entrambi nati per accogliere persone. Melfi è una struttura che parla al futuro e che è pronta ad essere modificata e a migliorare“.

Quanto la rende orgoglioso sapere che oggi, proprio a Melfi, FCA ha deciso di investire in ricerca e produzione portando proprio in Basilicata la produzione delle Jeep ibride plug-in, primo step verso l’elettrificazione del brand italo-americano. Si parla di un’iniezione di fiducia per un territorio che, anche grazie a lei, ha ripreso vita?

Molto orgoglioso, anche perchè è la prova concreta del ragionamento esposto a seguito della domanda precedente. Una prova che tutto funziona ed è stato apprezzato e che c’è qualcosa che parla e va oltre, quasi su aspetti psicologici. La fabbrica accoglie ed è stata ben accolta, ecco perchè è stata scelta come hub del futuro di FCA“.

Emerge dai suoi lavori, una ricerca feconda sul rapporto tra uomo, costruito e natura, come Melfi insegna. Pensa che oggi ci sia più attenzione su questi temi e anche nel mondo automotive si sia ormai tracciata una strada, complice il tema dell’elettrificazione e di una maggiore attenzione all’ambiente?

Credo che questo ragionamento venga ormai fatto da tutti quelli che vogliano acquistare una nuova auto. Il campo presenta ancora dei punti interrogativi ma buona parte di questi verranno presto sciolti perchè ormai tutti si rendono conto che le città non possono essere inquinate dai flussi di auto, non possiamo sprecare energia spostandoci con automobili troppo grandi. Queste cose possono essere stabilite dai governi e proprio l’esempio del nord Europa è davanti ai nostri occhi circa questo tipo di scelte. Credo sia importantissimo cambiare e penso che le aziende, appena questo salto tecnologico diventi pura realtà, saranno prontissime a cambiare strada e a investire sulla produzione sostenibile“.

Ultima domanda, d’attualità, sul momento che abbiamo attraversato nel 2020. Potrà, secondo lei, cambiare le coscienze delle persone, farci diventare migliori, più attenti a ciò che facciamo, o è stato solo un grande spavento cui seguirà il ritorno delle vecchie abitudini?

Questa domanda è comprensibile ma io non ho alcuna paura, perchè penso che la pandemia ci obbliga a cambiare, a capire quanto il mondo sia fragile e ci obbliga a capire quanto noi si debba fare per rispettare il mondo e rispettare noi stessi. Siamo stati, io credo, molto fortunati, perchè questa pandemia è stata anche relativamente benevola, certo ci sono state molte vittime, ma credo che questo sia stato un test per il quale non conviene aspettare la seconda parte, per evitare che una seconda fase sia più grave della prima o che in futuro un’altra pandemia possa essere più pericolosa di questo. Il mondo sta cambiando a una velocità incredibile, le temperature si alzano, siamo davanti a una crisi economica possibile che dobbiamo ritenere, appunto, possibile, nei nostri modi di vivere. Solo così potremo fare qualcosa contro un vero disastro che potrebbe avvenire se non dovessimo agire“.

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